Il laboratorio senza fine

L’Afghanistan è stato a lungo una macchia bianca sulle carte geografiche per quasi tutti noi. Almeno fino al 1978 quando, invaso dall’Unione Sovietica, questo Paese remoto, montagnoso e senza risorse, frammentato in centinaia di tribù ed etnie, è improvvisamente salito alla ribalta delle cronache internazionali.
È cominciata allora la sua «guerra senza fine», che dura ormai da oltre quarant’anni e che ne ha fatto il laboratorio ideale dove le sterili discussioni dottrinali dell’intellighenzia islamista sulla jihad come dovere morale di ogni buon musulmano si sono fuse con un know-how pratico-tecnologico che le ha trasformate in una guerra sul campo.
Col tempo, su questo sfondo instabile e irrequieto di gruppi rivali si sono innestati gli interessi geopolitici di Stati confinanti e limitrofi, e di superpotenze mondiali, soprattutto dopo l’11 settembre 2001 e la trasformazione della guerriglia afghana targata Taliban da jihad nazionale a jihad globale sotto la pressione sia di Al Qa’ida sia di Daesh, che in Afghanistan avevano trovato una casa.
Si tratta di uno scenario ormai ampiamente analizzato, che tuttavia, secondo Antonio Giustozzi, necessita di un nuovo sguardo, «strategico e olistico» insieme, capace, per esempio, di inquadrare meglio il ruolo avuto dal sostegno alla prima jihad afghana offerto da vari governi – compreso quello americano – nell’evoluzione della jihad stessa. E di valutarne l’impatto sull’ondata jihadista che, partita dall’Afghanistan, ha investito settori sociali sempre più vasti in Asia centrale, Caucaso, Medio Oriente, Nordafrica e Balcani.
Giustozzi segue qui in dettaglio il filo delle convulse vicende afghane nella «guerra senza fine», interrogandosi sulle implicazioni e gli sviluppi nel prossimo futuro. Perché è in laboratori come questo che si decideranno nei prossimi anni gli equilibri tra Asia, Africa e Occidente.